Lo storytelling delle pubbliche relazioni

«Giornalismo è scrivere ciò che qualcun altro non vuole che sia scritto. Tutto il resto sono pubbliche relazioni».

Quanto è geniale questa definizione di giornalismo data da George Orwell. E quanto ne dovremmo fare tutti tesoro. Ci ragionavo qualche tempo fa: quanto è corretto tenere insieme quei concetti per natura così distanti come azienda e giornalismo e quindi come brand e journalism? Anche io appartengo a quella generazione non più giovanissima che ha visto una moltiplicazione del ruolo della comunicazione e dei media dentro e fuori le aziende, diventate veri e propri editori. Correva l’anno 2003 e poco più che ventenne lavoravo in Vodafone occupandomi della web tv interna. In una delle rubriche da noi prodotte ospitammo Gianroberto Casaleggio, all’epoca uno dei riferimenti europei di quel mercato dell’e-commerce che nel tempo sarebbe esploso. Ospite degli studi TV di Vodafone, mi raccontò una storia che mi colpì moltissimo.

Una quindicina d’anni prima – il 24 marzo 1989 – dall’altra parte dell’Oceano in una fredda notte la gigantesca petroliera americana Exxon Valdez, priva di radar, nel tentativo di evitare alcuni blocchi di ghiaccio si incaglia nella baia di Prince William Sound, nel golfo dell’Alaska e dallo squarcio della fiancata fuoriescono undici milioni di galloni di greggio. Quasi quarantuno milioni di tonnellate di petrolio si riversano nella laguna. Nella più disastrosa sciagura ecologica che ha colpito l’America trovano la morte 250mila uccelli marini, migliaia di foche, aquile calve e balene. L’intero ecosistema del quale fanno parte anche gli indiani Chugach viene completamente e irrimediabilmente stravolto. Exxon Mobil, prima compagnia petrolifera al mondo proprietaria della Exxon Valdez, decide di inviare allora sul posto anche operatori di ripresa e addetti all’immagine. Alcune di queste troupe tv anticipano addirittura sul posto le altre testate giornalistiche, fornendo documenti video che poi vengono ripresi dai principali network televisivi, un po’ come funzio oggi con le produzioni amatoriali che circolano sui social. Dopo il disastro, col passare delle ore, sarebbero arrivati sul posto anche i responsabili dell’amministrazione dell’Alaska e i volontari di Greenpeace: ciascuno di questi attori in gioco produce un’importante documentazione video (qui l’intervista all’allora sindaco di Valdez John Devens con la ricostruzione delle ore successive della tragedia).

Quello che viene messo in campo è una grande operazione di pubbliche relazioni. Diciamocelo subito: oggi una pratica del genere sarebbe assai sconsigliata perché quel capitale reputazionale può essere messo a serio repentaglio con narrazioni improprie. Ma torniamo al punto di partenza e a quella citazione di Orwell: «Giornalismo è scrivere ciò che qualcun altro non vuole che sia scritto. Tutto il resto sono pubbliche relazioni».

Nel rispetto della verità, quello che mette in luce un’azienda è il suo punto di vista, la sua visione della società e del mondo, la sua idea di contemporaneità. Non è giornalismo, eppure è narrazione. «Buzzfeed si ripensa come azienda tecnologica, General Electric come editore. Non ci può essere sintesi migliore per descrivere cosa sta succedendo nel mondo sottosopra dei media». È diventata cult la battuta con cui Joshua Benton, direttore del Nieman Journalism Lab dell’Università di Harvard, ha descritto questi anni capovolti composti da un mosaico di brand che accendono magazine, testate, televisioni per aggregare, emozionare, posizionarsi, raccontarsi, vendere e intercettare pubblici connessi. Così da molti decenni le aziende arruolano cameraman, giornalisti, registi, post-producer. Recentemente per la sua TV il colosso alberghiero Marriot ha assunto Karin Timpone direttamente dalla Walt Disney. E d’altronde ogni società ha capito che può diventare una media company: lo ha detto tempo addietro al Financial Times, ripreso poi da tante testate come Yahoo, Richard Edelman, a capo dell’omonimo colosso mondiale di comunicazione e PR.

Una moltiplicazione di owned media, quella somma dei canali per i quali un brand detiene gestione e controllo. sulla quale abbiamo riflettuto qualche mese fa anche sulle pagine marketing del Sole24Ore, in un pezzo che ho scritto insieme a Fabio Grattagliano. Da noi secondo Audiweb la corporate information, ossia quell’insieme di siti e mobile app delle aziende, ha fatto registrare una crescita del +8.6% nel 2022. Ma allora la riflessione che va fatta per spiegare questa trasformazione epocale della comunicazione in azienda è anche tassonomica. Si tratta di brand journalism? Seguendo il ragionamento di Orwell no. Eppure si tratta di storytelling. Uno storytelling delle pubbliche relazioni che – dentro o fuori l’azienda – racconta cosa si fa e perché lo si fa. Possibilmente attenendoci a quella ricerca maniacale di verità e rispetto che anche il Guardian, in un suo storico pezzo della corporate communication, ha auspicato.