Oggi è il giorno della decima edizione dei Teletopi, gli oscar del video storytelling. Il presidente di giuria Carmen Lasorella ha scritto un proprio personale messaggio di indirizzo sul premio, sul senso di narrazione in rete, sulla forza delle parole e delle immagini, sul fare comunità attraverso le tecnologie sociali e digitali. Buona lettura!
Teletopi 2017. Università di Bologna. Un premio che compie dieci anni. Personalmente, presiedendone la giuria dal 2010, ne apprezzo il senso, consapevole tuttavia del limite. Siamo passati dalle web tv, di cui si premiava la speranza di una rivoluzione clamorosa, che prometteva un oceano di voci e di pensieri oltre i monopoli delle tv tradizionali, costruite sull’interesse e sugli interessi di imprese editoriali, al focus degli storytellers ovvero i narratori del terzo millennio, in apparenza individuali, di fatto collettivi. Quella prima scommessa è andata perduta, il presente diciamo che non entusiasma.
Con riferimento al premio tuttavia va detto che non ci sono alle spalle fondazioni o multinazionali, che esercitino pressioni sulle scelte o sui voti della giuria. Ci sono solo persone che condividono il potenziale visionario della tecnologia e il piacere di ritrovarsi a proprie spese, insieme a tanti altri, per ragionare di ciò che stiamo vivendo o che ci piacerebbe vivere e di come lo raccontiamo.
L’iniziativa ha il pregio di muoversi in un ambito universitario, dunque di studio e di ricerca, aprendosi al valore aggiunto della spontaneità della Rete e del mercato, creando l’occasione, almeno una volta l’anno, da dieci anni (dieci anni sono una misura ragguardevole, nelle accelerazioni di questo nostro tempo e della sua caducità) per ragionare degli obiettivi mancati e dei rischi crescenti in termini reali e non virtuali.
Intanto, preso atto che non si mettono più in fila i fatti per provare a capire i fenomeni, le narrazioni inevitabilmente denunciano una mancanza di prospettiva, sia sul passato sia sul futuro e gli ambiti invece di dilatarsi, sembrano restringersi. E’ un limite, che riguarda anche le storie e che bisogna provare a superare. Per intenderci, se tocca agli analisti indagare sugli squilibri geo-politici o sugli orientamenti finanziari, il problema delle minacce alla nostra democrazia – vedi il tema delle fake news – o dei rischi per il nostro portafoglio – leggi bitcoin – riguardano tutti noi. E tutti noi dobbiamo porci delle domande, laddove le narrazioni 4.0 possono contribuire a scrivere le risposte. Vale anche per l’emarginazione, per gli abusi e dunque per la povertà o le solitudini, oggetto spesso delle narrazioni, che hanno alle spalle situazioni irrisolte o deliberatamente provocate, come la violenza, le guerre… il terrorismo. Sciagure reali, non virtuali. Così come avveniva prima dell’avvento digitale, con le piccole storie si muove la riflessione, senza bisogno di arrivare a strattonare le emozioni. Anzi, con le emozioni non si pensa. Possono essere l’innesco, le emozioni, una miccia straordinaria per scatenare il potenziale della Rete, che -l’abbiamo visto tante volte- riesce a provocare un effetto tsunami. Ma fa male alla salute pensare con la pancia, soprattutto, fa male alla nostra umanità.
Lo storytelling può fare a meno dell’ipocrisia, che poi fa rima con demagogia, ma anche con la deontologia: un valore assolutamente da recuperare e da trasmettere. Le storie in Rete hanno il pregio di mettere sotto i riflettori forza positiva, cercando il contagio delle idee e delle buone pratiche, che portano anche vantaggi economici e comunque sviluppo. Colpisce che siano i privati, spesso aziende internazionali, a valorizzare questa forza positiva nelle loro scelte di comunicazione, piuttosto che le aziende pubbliche o di servizio pubblico, come sulla carta resta la Rai.
In Italia continuiamo a scontare il ritardo clamoroso di un sistema che ancora non può contare su una rete efficiente, nelle mani di pochi controllori, umanamente mediocri, mischiati agli interessi controllati. Scontiamo anche il deficit di cultura digitale, che nessun progetto di alfabetizzazione, pur approntato, ha mai favorito. Ai tempi di Archimede, si parlava dell’ ”ubi consistam” ovvero della necessità di appoggiarsi su qualcosa per aggiungere altri piani alla conoscenza. Noi oggi abbiamo un numero di leve infinito, rispetto a quelle di cui disponeva il grande matematico siracusano, ma le stiamo usando? Non rischiamo di ferirci, subendo il dolore, per riscoprire la nostra umanità.
Carmen Lasorella, Presidente di giuria Teletopi 2017