Appassionati, competenti, carismatici, ottimisti, capaci di fare rete declinandola anche in modo analogico, oltre gli steccati e le barricate di un tempo. Preziosi per ciò che sanno, abili per ciò che fanno, agili per come dialogano o vendono o lavorano in rete e sui social. Sono gli Artigeni, una generazione di artigiani digitali dalle idee geniali che ho avuto il privilegio di incontrare dal vivo e raccontare nel mio libro “SEI UN GENIO” edito da Hoepli, uscito esattamente dodici mesi fa.
Scriverlo è stata un’esperienza di crescita, un movimento continuo, un viaggio fisico e virtuale in centinaia di storie. Ed è stata anche l’occasione di conoscere dal vivo nelle diverse presentazioni – Bologna, Milano, Roma, Pescara, Firenze, Padova, Verona, Parma, Lamezia Terme, Lecce, Maratea – tanti altri Artigeni. Lavoratori che sanno declinare il sapere con le tecnologie digitali e sociali.
E io li devo ringraziare uno ad uno questi lavoratori dalle idee “wow” perché grazie a loro ho capito tante cose. Innanzitutto come ho scritto anche su questo blog tante volte il lavoro non è più quello di una volta, per parafrasare Mark Strand. O forse sì. Nel senso che il lavoro è quello di sempre quando scommette sull’eccellenza della ricerca e su quei saperi che affondano le radici in secoli di storia. Ma oggi il lavoro è anche qualcos’altro, quando si contamina con le tecnologie digitali. Per dirla alla Seth Godin il lavoro “wow” vive oggi di genialità umana e di innovazione tecnologica e di fatto arriva ad ibridare i mestieri di un tempo rendendoli più competitivi, contemporanei, internazionali.
D’altronde viviamo di fatto anni liquidi che macinano intuizioni geniali integrandole con le nuove tecnologie, anni segnati dalla Data Economy, come ha riportato l’Economist in copertina in queste settimane, argomentando come il vero petrolio dei nostri giorni sia rappresentato dai dati e soprattutto dal loro possesso.
Qualche mese fa il Guardian nel corto “The Last Job” ha descritto l’ultima lavoratrice sulla terra in un mondo dominato dai robot. Ma c’è anche chi profetizza scenari meno apocalittici, pur sempre nel segno della trasformazione: per il report Tomorrow Jobs il 65% degli studenti di oggi farà un domani lavori che ancora non esistono, accelerati di tecnologie 3D, visori immersivi, strumentazioni legate all’industria 4.0, piattaforme in crowd, big data, oggetti connessi e molto altro ancora. Ecco allora le storie degli Artigeni, tutte con un elemento in comune: alla base della loro attività imprenditoriale c’è un’idea innovativa declinata con le tecnologie digitali e sociali. Un’idea per presentarsi, aggregare una community, fidelizzare un cliente, vendere un prodotto o un servizio, incrementare il business.
Ed è proprio quell’idea innovativa che fa la differenza, consentendo di superare anche una fase di crisi. Ed ecco le 7 lezioni che ho imparato dagli Artigeni. E da chi vive e lavora come loro.
LEZIONE 1. ALTRO CHE DESTINO SEGNATO: ARTIGENI NON SI NASCE, SI DIVENTA.
Le intuizioni geniali, la preparazione, la rete come acceleratore consentono di ripensare il proprio percorso professionale. Di reinventarsi. Molti degli Artigeni raccontano questo cambio di passo, la capacità di ripensare il lavoro e di ripensarsi. Questa è la storia degli orafi che hanno messo in piedi La cera ritrovata a cavallo tra i quaranta e i cinquant’anni. Con coraggio e passione, puntando tutto su artigianalità e social media. Così quattro amici romani con percorsi professionali differenti hanno deciso di percorrere un pezzo di strada insieme, mettendosi in affari. E dopo un periodo di formazione sono diventati orafi. «La nostra vita era in una fase di stanca, non solo per motivi economici. Con questo lavoro ci sentiamo dei millennials, altro che avanzata mezza età», racconta Roberta Capasso, 53enne romana laureata in lettere ma con la passione sin dall’adolescenza per l’arte orafa. Oggi Roberta è in società con Fabiano Trionfi, Minù Capasso, Lara Alfieri. Tutto è iniziato con un corso di fusione a cera persa, tecnica etrusca versatile. Roberta con i suoi amici e soci ha puntato su questa arte antichissima, contaminandola con la comunicazione sui social.
LEZIONE 2. IL TUO ASSO NELLA MANICA E’ NELLA TRADIZIONE CHE SI CONTAMINA CON L’INNOVAZIONE.
Vi ricordate la regole delle 10mila ore? In un saggio che fece il giro del mondo nel lontano 1993 lo psicologo americano Anders Ericsson, docente dell’università del Colorado, quantificò la formazione necessaria per primeggiare: 10.000 ore il tempo stimato, ovvero circa 3 anni e mezzo di lavoro intenso e quotidiano, calcolando 8 ore al giorno. Ericsson analizzò un gruppo di giovani violinisti, ma dalla musica all’impresa il passo è breve. Pensando alla preparazione mi viene in mente la ricetta vincente nata nel forno di un paese e due generazioni che decidono di fare business insieme nel segno della tradizione.
Siamo a Bibbiano, paese di diecimila anime nelle prime colline emiliane e culla del parmigiano reggiano. La ricetta di questo business – approdata persino a New York, riscuotendo successo tra i palati più sopraffini – è composta dall’elemento cardine della terra emiliana, il parmigiano reggiano stagionato a ventiquattro mesi, assemblato con olio di oliva e farina del territorio. “Questi tre semplici ingredienti sono il composto delle nostre sfoglie chiamate Parmonie: gli elementi vengono amalgamati e cotti in forno, senza conservanti o lattosio e con proprietà nutritive importanti. Così il parmigiano acquista una chiave più delicata, simile ad una patatina”, racconta Gabriele Menozzi, 22enne emiliano laureato in marketing internazionale e co-fondatore di Parmonie.it.
L’attività è nata seguendo la ricetta pensata da Remo Bronzoni, sessantenne fornaio del paese. Impresa attiva da due anni e a chilometro zero, quella di Remo e Gabriele: lo stabilimento si trova nella loro Bibbiano, dà lavoro a otto persone in uno spazio di 1400 metri quadrati, producendo 500 chili al giorno per un mercato anche internazionale. “I macchinari sono stati fatti su misura da un ingegnere del paese”, precisa Gabriele.
LEZIONE 3. NON COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO: È IL CONTESTO A FARE LA DIFFERENZA. ALLEATI COL TERRITORIO.
La comunità oltre che la community. Così ha fatto Nunzio Marcelli, 62enne di Anversa degli Abruzzi – meno di quattrocento anime nell’aquilano – in tasca una laurea conseguita col massimo dei voti alla Sapienza di Roma e il chiodo fisso di tornare nella sua terra. Da giovane Nunzio decide di investire sulla sua terra, fondando una cooperativa agricola che dal 2000 è certificata biologica e che conta 1200 tra pecore e capre, oltre a maialini, somari, cavalli, galline. “Produco formaggi apprezzati in tutto il mondo, dall’Europa all’America”, afferma Nunzio. Perché i suoi prodotti oggi vengono serviti nei migliori ristoranti di Manhattan. Tra questi c’è il celebre locale di Robert De Niro. Oggi la sua azienda è navigabile online su Laportadeiparchi.com
Una porta sempre aperta: la cooperativa organizza momenti di studio, ospitando bambini e ricercatori, porta ogni anno decine di turisti in transumanza. “Proviamo a far riscoprire le radici di un mondo legato alle buone tradizioni. E a conservare questi meravigliosi pascoli”. E dalle impervie montagne abruzzesi, dove il freddo e la neve spesso hanno la meglio, la storia della cooperativa esce allo scoperto, conquistando le colonne del New York Times International. E questo ben prima del terremoto aquilano, quello che ha fatto il giro del mondo e della rete. Nel 2000, quindi ormai diciotto anni fa, l’edizione internazionale della testata americana raccontava l’adozione a distanza della pecora.
Dall’Abruzzo al Lazio. Questa è la storia di un fiume che disseta una comunità e fa rinascere un’impresa, ma è anche la storia di due fratelli chef autodidatti e testardi che hanno già ottenuto due stelle Michelin. Insieme hanno ripensato la trattoria di famiglia, facendola conoscere in ogni angolo del mondo. A tal punto che oggi vengono chiamati per insegnare i loro segreti nelle principali scuole di cucina d’Europa.
Nuotare controcorrente. Così hanno fatto i fratelli Sandro e Maurizio Serva. Proprio come i pesci di fiume. Siamo a Rivodutri, poco più di mille anime nel cuore del reatino. «Oggi vicino alla trattoria si coltivano ottime trote biologiche. Poi ci riforniamo dai laghetti della zona: quello del Salto, il lago di Campotosto. Alle nostre spalle c’è la sorgente seconda in Europa per portata di acqua con cinquemila litri al secondo. È acqua di montagna, arriva dalla parte del Terminillo, è buona e fresca», racconta Sandro, 58enne, sposato con tre figli. Ecco allora l’idea wow dei fratelli chef: ripensare la cottura con ricerca e innovazione, valorizzando i sapori del territorio, ripensandoli in modo innovativo. «Siamo gli unici al mondo ad aver conquistato due stelle Michelin con un prodotto come il pesce d’acqua dolce. Ecco perché nella motivazione della prima stella nel 2004 ci hanno detto che avevamo vinto remando controcorrente per trentatré anni», ricorda Sandro con orgoglio. Su Latrota.com c’è la storia di questa eccellenza.
LEZIONE 4. PUNTA SULLA NICCHIA CON UN’IDEA WOW. E DIVENTANE LEADER.
Occorre segmentare, verticalizzare, aggregare tribù e micro tribù. L’astronauta mancata e oggi contadina hi-tech Giorgia Pontetti, romana di nascita ma reatina d’adozione, ingegnere elettronico ed aerospaziale, in provincia di Rieti ha deciso di mettere in piedi l’azienda agricola con annesso agriturismo Ferrari Farm: oggi produce e vende online prodotti agricoli biologici genuini, ottenuti grazie a tre serre ad alta tecnologia per coltivazioni idroponiche tutte computerizzate. Sono serre uniche nel loro genere, sigillate rispetto all’ambiente esterno e quindi permettono di coltivare ovunque. «Sono più pulite di una sala operatoria, completamente computerizzate e autonome», precisa Giorgia. Siamo a Colle Cerqueto, tredici ettari tutti biologici. Oggi Giorgia si dedica alla coltivazione di un pomodoro intelligente, perché connesso nella serra in un microclima ideale. Nasce così il pomodoro senza nichel. «Ci rivolgiamo ad una nicchia di mercato del 20% di persone intolleranti al nichel. Vendiamo in Italia, in Inghilterra e in Germania».
Costruire imbarcazioni senza l’ausilio di modelli e stampi, eliminando passaggi oggi molto lunghi e dispendiosi. Di più. Addirittura pensare di attraversare l’Oceano Atlantico in una barca a vela, su un modello stampato in 3D. L’idea “wow” è di tre siciliani progettisti navali: si tratta di studiosi e appassionati di barche, di mare, di territorio. Sono di fatto tre Artigeni delle costruzioni che hanno pensato Ocore. «Abbiamo scelto un nome che è anche evocativo dell’anima dell’imbarcazione. Oggi stiamo realizzando da zero la prima barca al mondo stampata in 3D e che parteciperà alla regata transoceanica Mini-transat. Si disputa ogni due anni e nel 2019 partirà dal nord della Francia, farà una tappa intermedia alle Canarie e poi attraverserà tutto l’Atlantico per arrivare in Sud-America», racconta Daniele Cevola, 40enne palermitano di nascita e milanese di adozione, in tasca una laurea in architettura navale e oggi “yacht designer”.
LEZIONE 5. VINCE CHI SI ALLEA. ANCHE COL COMPETITOR.
Nuove filiere crescono, potremmo dire. E ne abbiamo scritto anche sul Sole24Ore. Non bastano però le sole idee. Bisogna sapersi alleare e fare sistema. Ecco, gli Artigeni nel loro piccolo hanno compreso che una via da percorrere è quella delle alleanze, del fare rete.
Così ha fatto Elisa Casumaro. Siamo in Emilia, nel post terremoto del 2012 che ha colpito tra Modena e Ferrara. Elisa, trentenne impegnata nel caseificio di famiglia, si è saputa rialzare dopo il terremoto con determinazione e con un’idea vincente. Ha consorziato venti aziende agricole e ha venduto in rete 42mila forme di parmigiano reggiano danneggiate dal sisma. Ecco allora come la rete consenta di accelerare un’idea geniale, arrivando ad intercettare migliaia di utenti potenziali consumatori. Una straordinaria opportunità offerta dalle tecnologie digitali e sociali che oggi abbiamo a disposizione.
LEZIONE 6. RICORDATI CHE SOCIAL E RETE NON SONO ACCESSORI. VANNO INTEGRATI NELLE TUE STRATEGIE DI IMPRESA.
La presenza online deve essere coerente, puntuale, calda, un nuovo modo di lavorare. Dell’importanza del lavoro sui social network ne avevamo già scritto. Intanto a San Floro, in provincia di Catanzaro, un ventottenne calabrese con in tasca una laurea in economia aziendale, ha impastato saperi e sapori del passato con le nuove tecnologie. E il suo appello alla riapertura dell’antico mulino in pietra che stava per chiudere per sempre è stato abbracciato da centinaia di sottoscrittori. Così il 31 gennaio 2017 il mulino ha ripreso a girare. «Un mulino con la ruota idraulica che azionerà le macine, proprio come cento anni fa. E avremo solo energia rinnovabile per far funzionare il tutto», racconta Stefano Caccavari sul sito Mulinum.it. Ora il grano diventa farina e la farina viene trasformata in prodotti da forno: pane, pizza, dolci. Tutto nel segno della biodiversità.
Un’intuizione geniale e la condivisione in rete: tutto è partito da un semplice post su Facebook scritto da Stefano il 14 febbraio 2016, meno di un anno prima dell’inaugurazione. Salviamo l’ultimo mulino in Calabria, recitava il messaggio. Poi il passaparola, che ha permesso di raccogliere oltre mezzo milione di euro in novanta giorni da centinaia di persone. È nata così una delle più grandi startup agroalimentare partite col web.
Progetto incubato dalla rete e che fa rete sul territorio: la coltivazione di grani biologici vede impegnate ben venti aziende agricole che hanno dato vita alla più grande e specializzata filiera di grano antico Senatore Cappelli del sud-Italia.
LEZIONE 6. SE PENSI CHE GIÀ TUTTO È STATO PENSATO TI SBAGLI DI GROSSO.
Nuovi prodotti o servizi per colmare bisogni emergenti. Questi Artigeni sono eccellenti nel loro lavoro e geniali nel trovare soluzioni per proporre prodotti o servizi innovativi. Non bastano però le idee, occorre mirare all’eccellenza. Perché per vincere la sfida dei mercati e competere in questi anni liquidi non basta lavorare bene. Occorre farlo al meglio. Bisogna diventare rilevanti. Ed eccellere». La loro impresa si chiama Banale, ma è molto lontano dall’esserlo. Perché in fondo le idee che commercializzano migliorano la vita di chi vive – e spesso sopravvive – in città. Soprattutto in questi mesi con un inquinamento fuori controllo e il proliferare di polveri sottili.
Così a Milano due trentenni neo-imprenditori hanno deciso di incrementare il benessere di chi vive la metropoli. Anche sulle due ruote. Tommaso Puccioni e Stefano Bossi insieme al loro team – una decina di persone, età media 29 anni – hanno studiato e realizzato una speciale maschera antismog. Un prodotto fatto di ricerca, innovazione, creatività, design. «Chiuderemo l’anno con 40mila maschere vendute e per il 90% all’estero. Anche se in Italia la consapevolezza sta aumentando in modo esponenziale», racconta Tommaso, 36enne di Firenze. Insieme al suo socio Stefano ha messo in piedi questa società che ripensa il design. Partendo dalla vita fuori dai contesti casalinghi e d’ufficio. «Siamo nati proprio dalla consapevolezza che la nostra vita attiva si svolga fuori dalle quattro mura di casa. Ed è inutile che il design continui a produrre sedie e tavoli. Occorrono prodotti nuovi».
La ricerca e la produzione sono nel quartiere Bovisa, asse nord-Ovest di Milano, zona in grande riqualificazione a due passi dalla cittadella universitaria del Politecnico. La rete è un potente alleato per questa impresa metropolitana. L’e-commerce per vendere e i social media per dialogare e farsi conoscere. Ma attenzione. Le regole sono chiare in bottega. «Prima si fanno le storie e poi le si raccontano».
LEZIONE 7. ARRENDERSI MAI.
Coraggio, entusiasmo, ma anche piedi per terra e testa sulle spalle. Gli Artigeni che ho conosciuto raccontano tutto questo e vanno anche molto oltre. Coraggiosa, instancabile, persino resiliente. Ester Brunini, 35enne artigiana artistica di Bolzano, è una di quelle donne che non si arrendono tanto facilmente. E così quando la banca le ha rifiutato il finanziamento per aprire la sua bottega artigiana, ha deciso di chiedere aiuto alla rete. E la rete ha risposto, dandole fiducia: quasi ottomila euro raccolti grazie al crowdfunding, ovvero la modalità di raccolta fondi con la formula della colletta online. Denaro ottenuto da decine di sottoscrittori della comunità cittadina. «In tanti hanno creduto al mio progetto, è stata una bellissima sorpresa», precisa Ester, che con quella cifra ha aperto la sua bottega di artigianato artistico proprio nella città bolzanina.
Al negozio fisico è associato uno virtuale, navigabile su Studiogialloargento.com. Ma Ester dialoga con la sua community grazie soprattutto alla Fanpage su Facebook. «Faccio del vero e proprio phototelling: fotografo le mie creazioni e le racconto». Oggi a distanza di undici anni dall’inaugurazione Ester continua a lavorare il vetro e a creare manufatti di ogni tipo: quadri, piccoli oggetti di bigiotteria, ma anche vetrate, lampade, installazioni per arredi. «Il vetro è stato un incontro d’amore, lavorarlo implica conoscenza e tanta pazienza». La bottega ha un piano terra adibito a laboratorio e un primo piano che è diventato col tempo un punto vendita. Così i clienti entrando ammirano quella parte essenziale del lavoro artigianale che è la creazione, l’idea che prende forma. Sempre unica e irripetibile nel suo genere
Un’impresa che dà vita ai profumi del territorio. Facendolo di fatto anche rivivere, dopo il sisma. Una coraggiosa storia sul fare ricerca e impresa che si lega indissolubilmente al terremoto che ha colpito il centro-Italia lo scorso ottobre. D’altronde l’appuntamento dal notaio per la costituzione della società era fissato da tempo, ma quella mattina di fine ottobre 2016 non ci sarebbe stato. Perché poche ore prima la vita a Camerino, paese del maceratese, sarebbe stata sconquassata dal terremoto.
«Per noi è stata una tragedia, ma non ci siamo persi d’animo e dopo pochi mesi dal notaio ci siamo tornati comunque», dice con orgoglio Emy Morelli, 30enne startupper e ricercatrice marchigiana, in tasca una laurea in economia con indirizzo finanziario e nel cuore la passione per i profumi. Una passione che coltiva sin da piccolina e che ha dato il nome a Mumo, impresa dedicata all’olfatto e di fatto alle emozioni, spin-off dell’Università di Camerino. «Mumo è come pronunciavo la parola profumo quando ero bambina e con questa startup vogliamo mettere in circolo i profumi dei nostri magnifici territori», precisa Emy, nata a Macerata e di stanza a Camerino. «Col terremoto il paese si è spopolato, oggi conta circa duemila abitanti rispetto ai settemila dell’autunno scorso. Io stessa ho avuto la casa distrutta dal sisma e gli altri miei concittadini sono dispersi lungo la costa. Oggi il problema grosso è ricostruire un tessuto sociale ed economico». Una ricostruzione che passa anche dai profumi delle sue terre: l’azienda è nata da anni di ricerca e ha un valore scientifico e tecnologico molto alto che di fatto ha trovato terreno fertile in due laboratori dell’Università di Camerino. «Siamo nella facoltà di chimica e botanica, all’interno della scuola di scienze e tecnologie. E poi siamo nella scuola di farmacia. I nostri laboratori non sono stati danneggiati dal terremoto perché fuori dalla città, ma sono stati comunque puntellati».
Il core business di Mumo si intreccia col territorio: ad animare il progetto sono cinque soci, tra cui l’università e una agenzia di comunicazione. E l’obiettivo è di riportare la comunità ad essere comunità. «Siamo tornati a Camerino, vogliamo far ripartire il nostro paese».